di
Giovanni Castellani.
Sebastiano Maffettone, per quanti non lo
conoscessero (e credo veramente pochi) è attualmente Professore ordinario di
Filosofia Politica presso l'università LUISS Guido Carli di Roma, dove è Direttore
del Dipartimento di Scienze Politiche e dirige il Center for Ethics and Global
Politics.
È anche stato visiting professor nelle
università di Harvard, Columbia, Tufts, Boston College, University of
Pennsylvania, New Dehli, LSE, Sciences-Po (Paris).
Ha contribuito e continua a contribuire
al dibattito scientifico internazionale sui temi dell'etica dell'economia e
della politica. Molti gli attribuiscono, tra l'altro, il merito di aver divulgato
in Italia il pensiero di John Rawls, filosofo statunitense e figura di spicco
della filosofia morale e politica moderna. La posizione filosofica di Rawls, a
lungo molto popolare tra i democratici americani, consiste in una forma di
liberalismo egalitario attento alla questione dell'eguaglianza e delle pari
opportunità, divenendo il tratto distintivo e immancabile della sua idea di
giustizia concepita come equità.
L'importante contributo di Maffettone
alla introduzione ed alla riflessione sulle teorie di Rawls, ha consistito
nella ricerca di applicazione alla globalizzazione economica dei principi del
liberalismo rawlsiano.
Qualche settimana fa, a Napoli, in
occasione del Premio AUXI - Commercialisti Accanto, ho incontrato Sebastiano
Maffettone, che non conoscevo di persona ma che seguo da sempre con grandissimo
interesse accademico e culturale.
Sono riuscito a parlare un po' con il
Prof. Maffettone il quale, con la cordialità classica dei napoletani, ha accettato
volentieri di commentare e poi mettere per iscritto, alcune riflessioni che gli
ho sottoposto. Il tema era provare a capire se, ancora oggi in questo mondo
completamente globalizzato, restasse attuale il pensiero espresso nel passato
più o meno recente, da alcuni grandi protagonisti, egli compreso, del dibattito
mondiale sull'Etica del lavoro e degli affari.
Questo il nostro colloquio.
Castellani
S. Giovanni Paolo II nel corso del suo
pontificato, si espresse più volte sul fenomeno della globalizzazione, dicendo
che il fenomeno di per sé non è buono né cattivo. Tutto dipende da ciò che
l'uomo ne farà.
Il Papa scriveva già nel 1991: "Oggi è in atto la cosiddetta
"mondializzazione dell'economia", fenomeno, questo, che non va deprecato,
perché può creare straordinarie occasioni di maggior benessere. Sempre più
sentito, però, è il bisogno che a questa crescente internazionalizzazione
dell'economia corrispondano validi organi di controllo e di guida, che
indirizzino l'economia stessa al bene comune".
Amartya Sen riteneva che tra etica ed
economia esistesse una relazione particolare, ossia di reciproca utilità.
Egli ricordava come "molta economia riguarda provvedimenti che
vanno presi e poi esaminati e valutati. Non è possibile fare una valutazione se
non si hanno dei valori, quindi c'è bisogno di un'etica per decidere se tale
provvedimento sarebbe un bene o se talaltro sarebbe un male".
Lei, Professore, in un articolo su Il
Sole 24 ore del 22/04/2005, osservava che "La forza dei sentimenti morali non è
indipendente da quanto ci è vicino o lontano l'altro, la cui vita è messa a
repentaglio. Se pure mettiamo da parte le catastrofi naturali, sappiamo tutti
benissimo che migliaia di persone muoiono di fame e mancanza di cure mediche
ogni giorno. Ma il fatto che la maggior parte di loro si trovi in Africa, rende
la cosa meno intollerabile di quanto lo sarebbe se fossero accampati a piazza
Navona. Dall'altra parte, quando vediamo in tv le madri cingalesi che ritrovano
un figlio morto scavando disperate tra il fango e le macerie, noi siamo certi
di comprendere un dolore. Un dolore che è universale, nel senso che è uguale per
tutti e non sembra dipendere dalla razza, la tradizione, o la religione di
appartenenza. E ancora una volta ci sentiamo a metà del guado, combattuti tra
due aspetti della nostra personalità che convivono talora drammaticamente".
Maffettone
Credo
che Giovanni Paolo II abbia assolutamente ragione su questo punto, e che sia
stato una fonte di ispirazione per tutti noi: la globalizzazione economica è un
fatto, se sia buona o cattiva dipende da come lo interpretiamo e da che uso ne
facciamo. Amartya Sen, cui sono molto vicino anche perché è stato mio
professore, ci dice che per valutare qualcosa dobbiamo avere una visione etica
che ci consenta di distinguere ciò che vale da ciò che non vale. Anche in
questo caso, mi sembra che abbia ragione: i fatti in quanto tali sono
valutativamente neutrali, e quindi dobbiamo sviluppare un'idea di valore per
dare loro un significato etico-politico. Da questo punto di vista, valutare i
processi di economia globale e cercare di indirizzarli in una direzione che
assicuri maggiore benessere a tutti cominciando da chi sta oggi peggio è il
problema più importante del nostro tempo. Dico del nostro tempo perché anche se
il problema esisteva anche prima, solo oggi abbiamo le risorse e gli strumenti
per affrontarlo in maniera efficace. Tenendo presente la rilevanza assoluta del
problema, l'unica aggiunta che posso fare rispetto alle personalità citate
consiste nel suggerire che la questione non è solo etica o religiosa. La buona
volontà e la carità non sono sufficienti a affrontare problemi di così vasta
portata. Occorre anche un formidabile impegno politico. Impegno che consiste
innanzitutto nell'accordo preventivo tra stati, organizzazioni non-governative,
compagnie transnazionali e così via, e in secondo luogo nella capacità di
enforcement di questo accordo. Intendo
dire che solo la buona volontà e la carità sono volontarie, mentre le
conseguenze della politica sono obbligatorie per tutti. La giustizia globale
deve diventare poco alla volta un imperativo politico. Non è facile, basti pensare
che in democrazia bisogna votare qualsiasi provvedimento che vada in direzione
di maggiore giustizia globale. Provvedimenti del genere sono però costosi, e
richiedono tassazione delle popolazioni abbienti. E' ovvio pensare che non sia
facile pensare che i cittadini degli stati ricchi siano disposti a dare il
consenso a una auto-tassazione di questo tipo. Per ottenere un risultato
siffatto dobbiamo perciò tutti adoperarci affinché la religione e l'etica
diventino patrimonio di maggioranze di cittadini di stati abbienti che votino
per maggiore giustizia
sociale.
Castellani
Oggi,
identificare il soggetto-colpevole di un'azione non etica, soprattutto se si
tratta di un problema generale, diventa quasi impossibile: si finisce così
purtroppo per eccedere nell'opposto, rifugiandosi nell'idea che nessuno sembra
essere responsabile delle proprie azioni. Questo paradosso che ha suscitato
l'attenzione degli studiosi, è stato identificato da Ulrich Beck nel fenomeno
della "irresponsabilità organizzata".
Nous
avos besoin d'une culture de l'incertitude, Le Monde, 20 dicembre 2001, scrive:
"I Politici affermano che di non essere responsabili: al massimo "regolano lo
sviluppo". Gli scienziati dicono di creare nuove opportunità tecnologiche, ma
non possono decidere il modo in cui saranno utilizzate. I capi d'impresa
spiegano che rispondono alla domanda dei consumatori. È ciò che chiamano
l'irresponsabilità organizzata".
Beck, sottolinea, anche a seguito della
"catastrofe dell'11 settembre", come la società moderna e per analogia il
sistema economico, debba fare i conti con un nuovo concetto di rischio che
nasce, dalla perdita della sicurezza esistenziale prima e nelle istituzioni
poi. Il sociologo propone come soluzione a quella che chiama "società del
rischio" un recupero, appunto, della responsabilità.
A riprova di ciò, Beck scrive: "ciò di cui abbiamo bisogno è una cultura
dell'insicurezza, che rompa con i tabù della cultura del rischio residuale, da
un lato, e con quello della cultura della sicurezza, dall'altro".
Maffettone
Chiunque
dica qualcosa del genere: "io invento la bomba atomica, ma non sono
responsabile delle sue conseguenze mortali", ha, a mio parere, sempre torto. E
ha torto anche il politico che rifiuta di considerare le conseguenze etiche
delle sue decisioni. Io chiamo "etica pubblica" quella visione e quell'attività
che ci aiuta a renderci conto di quello che facciamo nella sfera pubblica e dei
suoi effetti nel mondo. La speranza di una terapia della sicurezza affidabile
sta nella crescita dell'etica pubblica, nel fatto che i cittadini si rendano
sempre più conto che devono optare per un "mondo migliore" (come recita il
titolo di un mio libro). E' un compito arduo, e in democrazia presuppone -come
ho detto- il consenso popolare.
Ma,
"hic Rodhus hic salta"!
Castellani
Una
possibile soluzione alle disfunzioni legate ai processi della globalizzazione,
viene dal concetto di "sviluppo sostenibile" che si pone come risposta
condivisa alla domanda postaci circa il "come" attivare uno sviluppo economico
nel rispetto di valori etici.
Il concetto di "sostenibilità" ha
acquisito, poi, una connotazione nuova negli ultimi decenni. Come lei ha fatto
notare, "oggi si parla di più di qualità
della vita, piuttosto che di ecologia": si è verificato, perciò, uno spostamento
dal concetto di sostenibilità legato esclusivamente all'ambito del rapporto
sviluppo-ambiente a quello relativo ai rapporti economico-sociali tra le
persone.
Papa Francesco, quando ci ha ricevuti
alla fine del nostro Congresso Mondiale lo scorso novembre, ci ha detto che
oltre a fare bene e con onestà il nostro lavoro, dobbiamo "andare oltre".
Maffettone
Quello di sostenibilità è uno dei
concetti centrali del nostro tempo. Lo si può e lo si deve declinare non solo
in termini ecologici ma anche in termini economici e sociali. La sostenibilità
ecologica implica sviluppo presente compatibile con il benessere delle generazioni
future. La sostenibilità sociale pretende che i vantaggi dello sviluppo siano
ripartiti tra le persone con equità. Lo sviluppo economico richiede efficienza
durevole nel tempo. Questi tre imperativi ci invitano a promuovere uno sviluppo
sostenibile che renda il futuro della nostra società meno arbitrario e
rischioso.
Castellani
In una passata intervista, interrogato
sul fatto se esistesse ancora un'etica pubblica, Lei disse che "L'etica
pubblica esiste ma è in crisi; me ne accorgo essendo in contatto costante con i
giovani. Nei ragazzi è diminuita la fiducia nel futuro e, in particolare, la
consapevolezza di potersi realizzare sia da un punto di vista professionale che
sociale, soltanto studiando ed impegnandosi. Pensano che l'impegno sia
un'utopia senza il supporto inevitabile di una segnalazione o di una
raccomandazione, a volte più efficace di un titolo di studio. Questo è un meccanismo
autodistruttivo perché se non ci si impegna per crearsi il merito, si ha
assolutamente bisogno di un appoggio e, quindi, diventa quasi una profezia che
si autoverifica".
Di fronte a questo scenario decisamente
sconfortante, lei continuava affermando che forse, l'unica vera soluzione a
tale problema esistenziale, potesse essere il rafforzamento della cultura,
trasmessa con passione dai docenti. E quindi, sempre citandola, "Negli Atenei è
basilare lo studio, non credo sia necessaria una impostazione solo pragmatica.
Nelle Università della pragmatica America (dove ho insegnato per anni), la
ricerca filosofica è considerata molto importante; senza astrazione non c'è
creatività ... All'Università si deve studiare perché se si studia bene il
lavoro si può apprendere con maggiore facilità".
Studiare bene non è però solo una
responsabilità degli studenti.
Mi pare che la qualità e soprattutto la
passione che riescono a trasmettere i Docenti, resti una conditio sine qua non.
Maffettone
Sono d'accordo con lei: ci vogliono
studenti desiderosi di apprendere e docenti non solo competenti ma anche capaci
di fungere da maestri, ma dietro di loro ci vuole una società in grado di
apprezzare la cultura e la formazione (quello che più manca nell'Italia di
oggi). Proprio per ciò io resto convinto che anche in questo caso stiamo
parlando di una questione di etica pubblica, cioè della capacità di una società
di trasmettere valori nel tempo. La crisi, che attraversa tutto l'Occidente ma
in Italia è più grave che altrove, rende tutto ciò molto difficile. Bisogna
battersi con tutte le proprie forze per evitare che questo investimento sociale
in cultura e formazione non abbia luogo. Soprattutto bisogna convincere i
giovani e le loro famiglie che l'investimento in capitale umano, come lo
chiamano gli economisti, è il più importante e il più prezioso su cui possono
scommettere. Non è cosa facile in specie in un paese in cui l'onestà e il
merito spesso non sono ricompensati. Il rimedio migliore mi sembra sempre
quello che consiste nell'impegnarsi individualmente e collettivamente, facendo
bene il proprio lavoro, e promuovendo l'etica pubblica.
28
febbraio 2015