di GIOVANNI CASTELLANI.
In
chiusura del Congresso Mondiale che si è svolto a Roma poco meno di due settimane
fa', con migliaia di colleghi convenuti siamo stati ricevuti dal Santo Padre in
sala Nervi. Papa Francesco, con la sua solita comunicatività semplice e diretta
ci ha tra l'altro detto: "L'attuale contesto socio-economico pone in maniera
pressante la questione lavoro. La questione lavoro: è il punto chiave, questo.
Dal vostro osservatorio professionale, voi vi rendete ben conto della
drammatica realtà di tante persone che hanno un'occupazione precaria, o che
l'hanno perduta; di tante famiglie che ne pagano le conseguenze; di tanti
giovani in cerca di un primo impiego e di un lavoro dignitoso. Sono numerosi
coloro, specialmente immigrati, che, costretti a lavorare "in nero", mancano
delle più elementari garanzie giuridiche ed economiche.
In
questo contesto è più forte la tentazione di difendere il proprio interesse
senza preoccuparsi del Bene Comune, senza badare troppo alla giustizia e alla
legalità. Perciò è richiesto a tutti, specialmente a quanti esercitano una
professione che ha a che fare con il buon funzionamento della vita economica di
un Paese, di giocare un ruolo positivo, costruttivo, nel quotidiano svolgimento
del proprio lavoro, sapendo che dietro ogni carta c'è una storia, ci sono dei
volti."
Il
Santo Padre incitava tutti e ciascuno di noi a "fare bene il proprio dovere,
con competenza e saggezza: e poi ad andare
oltre, che significa andare incontro alla persona in difficoltà; esercitare
quella creatività che ti permette di trovare soluzioni in situazioni bloccate;
far valere le ragioni della dignità umana alle rigidità della burocrazia.
Ma
non solo! Ci è stato specificato con chiarezza anche il fine dei nostri sforzi
professionali poiché, sono sempre parole del Papa, "Voi commercialisti, nella
vostra attività, vi affiancate alle aziende, ma anche alle famiglie e ai
singoli, per offrire la vostra consulenza economico-finanziaria. Vi incoraggio
ad operare sempre responsabilmente, favorendo rapporti di lealtà, di giustizia
e, se possibile, di fraternità, affrontando con coraggio soprattutto i problemi
dei più deboli e dei più poveri. Non basta dare risposte concrete ad
interrogativi economici e materiali; occorre suscitare e coltivare un'etica
dell'economia, della finanza e del lavoro".
Abbiamo
dunque da meditare ed interrogarci su come questo esplicito riferimento
all'Etica, possa da noi essere correttamente compreso e messo in pratica.
L'etica
professionale non è una teoria astratta, di tipo contemplativo o puramente
speculativo, ma è una guida per la prassi attraverso cui ricongiungere l'azione
e la riflessione. E per riuscire nell'impresa, è fondamentale una ricerca di
senso condiviso, che implichi un impegno di sedimentazione e di rilettura di
ciò che accade. Questo, nella tradizione della teologia morale, è quel che si
dice "esame di coscienza"; qui, lo possiamo ritradurre in termini "laici"
parlando di "rilettura dell'esperienza".
Come
per ogni azione umana, anche i nostri comportamenti professionali sono sempre
derivati da qualcosa di più che una semplice dote, abilità o scienza, frutto di
qualità innate della conoscenza, di nozioni più o meno universali, o della
reiterazione corretta di determinate regole.
Nel
nostro agire sono congiunti gli aspetti psicologici e gli aspetti etici delle
comuni disposizioni stabili dell'uomo, proteso, per definizione, verso la
realizzazione di tutte le sue potenzialità naturali.
Ma
c'è una bella distinzione (il che non vuol dire separazione) tra l'abilità
tecnica o artistica, il sapere speculativo, scientifico-professionale e le
virtù morali. Come osservava Socrate, una buona qualità professionale,
scientifica o artistica non appartiene in uguale maniera a tutti gli uomini e
può essere utilizzata per un fine parziale, anche perverso, senza che per
questo motivo perda l'intrinseco valore positivo di abilità tecnica, artistica,
professionale. La virtù morale può essere invece richiesta in pari modo a tutti,
incide profondamente sulla perfezione della persona e comporta, essenzialmente,
la capacità di agire bene non in relazione ad un fine parziale, ma alla
totalità della condotta umana.
In
altre parole, non tutti possono essere buoni commercialisti, architetti,
medici, giornalisti, poeti, ma ognuno può essere virtuoso.
Esistono,
però, anche una unità e una relazione gerarchica tra le diverse qualità di una
persona, tra le sue virtù e le sue doti lavorative.
Le
une (le virtù) contribuiscono gerarchicamente, alla realizzazione delle altre
(le capacità professionali): la loro specificità consiste proprio nell'essere
ordinate all'ultimo fine della persona, la felicità, e da ciò deriva la sua
superiorità rispetto ad ogni altra qualità personale.
E
questa riflessione (che dobbiamo fare tutti e ciascuno) ci dovrebbe portare a comprendere
come la vera dignità dell'uomo consista nella pratica delle virtù.
Le
virtù, essendo accessibili a tutti, accorciano distanze ed eliminano conflitti
tra gruppi sociali e categorie professionali: né l'età, né la miseria, né la
ricchezza, né la mole degli affari né ogni altra circostanza, stato o
condizione sociale, impediscono di essere virtuosi. Per questo Montesquieu
(seppure su basi riduttivamente razionali) poteva porre come principio coesivo
di una repubblica: la virtù.
A
prescindere dai sistemi politici e dalle peculiarità storico-sociali in cui
tale giudizio è stato espresso, il principio è sempre attuale. Se oggi si parla
tanto di etica del lavoro professionale è perché ci si accorge che, più ancora
delle ingiustizie sociali e degli abusi nell'esercizio del diritto, il lavoro completamente
emancipato dalla morale alimenta forme raffinate di egoismo individuale e
collettivo che si pongono in contrasto con le istanze del Bene Comune.
Le
esigenze individuali di benessere e di felicità non possono, anzi non devono,
entrare in conflitto con la pratica della virtù.
Non
dimentichiamo dunque che l'etica, avendo per materia le virtù, ha in primo
luogo la finalità di educare dall'interno disposizioni, inclinazioni e tendenze
dell'uomo, e non la realizzazione di singoli atti, come può accadere per le
finalità della Deontologia, di cui, forse un po' superficialmente, andiamo
tanto fieri.
"Una
rondine non fa primavera", è un detto popolare con un passato illustre.
Aristotele, nell'Etica Nicomachea, fissa con queste medesime parole un
importante principio: non basta un atto solo a qualificare un uomo, sono le
virtù e i vizi (abiti ottenuti con un prolungato esercizio di libere scelte)
che abilitano ad agire bene o male e, quindi, consentono di dare un giudizio di
moralità.
La
virtù si distingue dalla buona azione per il fatto che opera una permanente e
profonda conformazione etica di tutto l'essere umano.
Secondo
Aristotele, le virtù dell'uomo costituiscono la base delle norme che devono
guidarne la condotta. Ogni regola o codice deontologico viene dopo la virtù.
Aggiunge
il Papa però, che quando si parla di virtù non si fa riferimento soltanto alla
capacità continuativa di agire bene. Si deve pensare a qualcosa di più.
Etica
e regole di comportamento professionale sono infatti naturalmente combinate
nell'esercizio delle quattro virtù cardinali su cui si regge tutta la vita
morale a prescindere da qualsiasi credo religioso: prudenza, giustizia,
fortezza e temperanza.
Sono
queste virtù morali, fin dall'antichità chiamate infatti anche "civili",
proprio perché non necessariamente legate alla religione, che riguardando gli aspetti
cardine della personalità umana, impediscono (come accade ogniqualvolta si fa
un discorso etico in chiave meramente utilitaristica o funzionale) la
divaricazione tra principi etici generali e comportamento pratico.
Questo,
per sottolineare che non ha perciò senso domandarsi pragmaticamente, quali sono
le virtù necessarie per avere riconoscimento e successo nella professione.
La
risposta, ad una domanda così povera di contenuto etico, si diluisce in un
elenco di comportamenti (iniziativa, creatività, sistematicità, sensibilità,
fermezza, tatto, e altri ancora) la cui finalità esclusiva finisce per essere
quella di assicurare la c.d. integrazione sociale, facendo risaltare unicamente
la loro utilità pratica.
Congiungere
il discorso etico sulle virtù, all'esercizio corretto della vita professionale
comporta un'esplicita scelta di campo, ben lontana dalle sabbie mobili della
Deontologia, semplice costatazione di regole comportamentali e di prassi comuni
all'interno di una specifica professione.
Attenzione
infatti, perché già Adam Smith aveva messo in guardia contro i cosiddetti "men
of system", che risolvono le questioni sociali e politiche al modo in cui si
manovrano i pezzi su una scacchiera. L'homo oeconomicus, descritto dall'economista
inglese Bentham (che intorno al 1830 declinò il termine "Deontology" come
un'Etica utilitaristica dei valori) mancava del carattere di novità, lo aveva
seminato Epicuro millenni prima. La fama di Bentham, scaturì purtroppo da una
visione che si è rivelata arida e pericolosa.
"Arida",
perché Bentham fu uno per il quale "le arti sono un eccellente surrogato
dell'ubriachezza, e si dovrebbe incontrare un altro essere umano "solo per
qualche scopo preciso". "Pericolosa", poiché Bentham pensò di aver trovato la
chiave per ottenere il Bene Comune massimizzando la somma algebrica dei piaceri
e dei dolori individuali. A lui la schiavitù dava fastidio esclusivamente
perché gli schiavi che soffrivano erano più numerosi dei padroni che ne
traevano utilità.
L'etica
professionale non può dunque esaurirsi nella descrizione empirica di regole che
la convenienza chiede di rispettare, e dei doveri che ne conseguono.
Un
ordinamento così strutturato risulterebbe troppo fragile in quanto legato a
mere convenzioni che trasformano l'etica professionale in quella che è stata
chiamata deontologia efficientista della transazione (cioè del compromesso, del
male minore), utilitaristica e comunque piena di sofisticati alibi elusivi.
Si
pensi alle difficoltà ed alle zone d'ombra delle leggi fiscali; oppure agli
ambiti minati della libertà di espressione e dei diritti all'informazione,
minacciata dagli intrecci (spesso oscuri) tra informazione e pubblicità; oppure
ai settori della ricerca biogenetica e al business indotto; o alle grandi
fabbriche e all'inquinamento dell'aria, ecc. ecc.
Un
mero calcolo di "costi e benefici" non sembra dunque sufficiente a configurare
la moralità di un'azione. Si richiedono virtù che attuino il bene e difendano i
valori su cui è fondata una società libera e giusta e, nello specifico per noi
commercialisti, principi etici da rispettare nella pratica della professione e
da cui poi, dedurre concrete norme deontologiche che, va detto, possono esigere
la rinuncia a vantaggi non soltanto individuali, ma anche corporativi.
In
altri termini, è fondamentale sottolineare la sostanziale differenza che
intercorre tra quella che è stata chiamata "deontologia della transazione",
prona alle più utilitaristiche convenzioni, e un'etica professionale ancorata
alle virtù e cioè alla stabilità e al vigore morale del singolo individuo nello
svolgimento ordinario della sua attività professionale.
Ma
in concreto, come si fa a valorizzare e responsabilizzare l'intero sistema?
Ha
osservato Zamagni che la vera sostanza dell'etica delle virtù è "nella sua
capacità di risolvere, superandola, la contrapposizione tra interesse proprio e
interesse per gli altri, tra egoismo e altruismo. E' questa contrapposizione,
figlia della tradizione di pensiero individualista, a non consentirci di capire
appieno ciò che costituisce il proprio bene. La vita virtuosa è la vita migliore
non solo per gli altri - come vorrebbero le varie teorie economiche
dell'altruismo - ma anche per se stessi. E' in ciò il significato proprio della
nozione di Bene Comune, il quale non è riducibile alla mera sommatoria dei beni
individuali. Piuttosto, il bene comune è il bene dello stesso essere in comune."
Cioè, secondo Aristotele, che è l'iniziatore dell'etica delle virtù, il bene è
qualcosa che avviene, che si realizza mediante le opere.
La questione più seria con le varie teorie di etica delle
professioni di matrice individualista è dunque che non sono in grado di fornire
un motivo per "essere etici". La soluzione al problema della motivazione etica dei
commercialisti non può perciò essere quella di fissargli vincoli (o dargli
incentivi) per agire, ma di offrirgli una più completa comprensione del suo
bene.
1 Dicembre 2014